Sogna un marito, non il monastero. Si chiama Clarice, è molto bella e ha sott’occhio un giovane marchese Capizucchi, ottimo partito per una figlia del principe Marcantonio Marescotti, dell’alta aristocrazia romana. E il principe, infatti, gli dà volentieri in moglie una figlia. Ma non è Clarice. È Ortensia, la più giovane.
Dopodiché Clarice diventa il flagello della casata, insopportabile per tutti. Una delusione simile può davvero inasprire chiunque, ma forse le accuse sono anche un po’ gonfiate per giustificare la reazione del padre, che nel 1605 la fa entrare nel monastero di San Bernardino a Viterbo, dalle Clarisse, dove c’è già sua sorella Ginevra. Qui lei prende il nome di Giacinta, ma senza farsi monaca: sceglie lo stato di terziaria francescana, che non comporta clausura stretta. Vive in due camerette ben arredate con roba di casa sua e partecipa alle attività comuni. Ma non è come le altre. Lo sente, glielo fanno sentire: un brutto vivere. Per quindici anni si tira avanti così: una vita “di molte vanità et schiocchezze nella quale hero vissuta nella sacra religione”. Parole sue di dopo. C’è un “dopo”, infatti. C’è una profonda trasformazione interiore, dopo una grave malattia di lei e alcune morti in famiglia. Per suor Giacinta cominciano ventiquattro anni straordinari e durissimi, in povertà totale. E di continue penitenze, con asprezze oggi poco comprensibili, ma che rivelano energie nuove e sorprendenti. Dalle due camerette raffinate lei passa a una cella derelitta per vivere di privazioni: ma al tempo stesso, di lì, compie un’opera singolare di “riconquista”. Personaggi lontani dalla fede vi tornano per opera sua, e si fanno suoi collaboratori nell’aiuto ad ammalati e poveri. Un aiuto che Giacinta la penitente vuole sistematico, regolare, per opera di persone fortemente motivate. Questa mistica si fa organizzatrice di istituti assistenziali come quello detto dei “Sacconi” (dal sacco che i confratelli indossano nel loro servizio) che aiuta poveri, malati e detenuti, e che si perpetuerà fino al XX secolo. E come quello degli Oblati di Maria, chiamati a servire i vecchi. Nel monastero che l’ha vista entrare delusa e corrucciata, Giacinta si realizza con una totalità mai sognata, anche come stimolatrice della fede e maestra: la vediamo infatti contrastare il giansenismo nelle sue terre, con incisivi stimoli all’amore e all’adorazione per il sacramento eucaristico. Non sono molti quelli che la conoscono di persona. Ma subito dopo la sua morte, tutta Viterbo corre alla chiesa dov’è esposta la salma. E tutti si portano via un pezzetto del suo abito, sicché bisognerà rivestirla tre volte. A Viterbo lei resterà per sempre, nella chiesa del monastero delle Clarisse, distrutta dalla guerra 1940-45 e ricostruita nel 1959. La sua canonizzazione sarà celebrata da Pio VII nel 1807.